Non può negarsi il diritto alla liberazione condizionale se è altamente probabile che il condannato si asterrà dal commettere reati una volta ottenuta la misura

di Mauro Trogu

Condanna all’ergastolo sì, fine pena mai, no!

La pena dell’ergastolo è prevista e disciplinata dal codice penale italiano, il quale la definisce come pena detentiva perpetua (art. 22 c.p.). Questa sua caratteristica viene sintetizzata negli ordini di esecuzione della pena emessi dai pubblici ministeri che curano l’esecuzione con la dicitura “fine pena mai”.

Alla sua approvazione il codice penale prevedeva anche la pena di morte, il che dimostra come la sensibilità per i diritti fondamentali della persona fosse all’epoca molto diversa da quella che si è raggiunta oggi.

Attualmente, sapere che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.), impedisce di ammettere in misura incondizionata una pena perpetua.

Infatti ha senso elaborare un progetto rieducativo solo se il condannato potrà uscire dal carcere.

La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha stabilito il divieto di sottoporre qualsiasi essere umano a trattamenti inumani e degradanti.

La Corte ha infatti affermato che “integra una violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’art. 3 CEDU, la previsione, per i soggetti condannati all’ergastolo per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit., di meccanismi presuntivi di pericolosità che non consentano, in contrasto con la finalità rieducativa della pena, di riesaminare la necessità del mantenimento della detenzione perpetua e di accedere al beneficio della liberazione condizionale in presenza di significativi progressi nel programma di risocializzazione del condannato” (Corte EDU sez. I – 13 giugno 2019, n. 77633, Viola c. Italia)

Tale pronuncia segue quella dottrina secondo la quale ogni condannato, per quanto grave sia il crimine da lui commesso, conserva la propria dignità e, per tale ragione, non può essere privato del “diritto alla speranza” che la sua pena perpetua possa essere riesaminata e vi siano prospettive realistiche di commutazione della stessa o di progressiva maturazione dei requisiti della liberazione condizionale.

Entro questa prospettiva è necessario, in particolare:

  • che ogni detenuto sia portato a conoscenza delle condizioni da assolvere per poter aspirare alla liberazione e che sia concretamente messo in grado di dimostrare la propria emenda;
  • che il procedimento di revisione della pena perpetua sia corredato da idonee garanzie che evitino ogni apparenza di arbitrio nella decisione;
  • che la procedura sia sottoposta al controllo giudiziale e venga strutturata su periodici riesami della situazione del detenuto, il primo dei quali da effettuarsi decorsi venticinque anni di pena espiata.

Detto in altri termini, l’ergastolo, nel nostro ordinamento, mantiene diritto di cittadinanza solo nella misura in cui il condannato può accedere sulla base di presupposti ragionevoli alla liberazione condizionale.

I recenti interventi della Corte costituzionale sul tema dell’ergastolo c.d. ostativo per i delitti di criminalità organizzata

La Corte costituzionale, con la sentenza 253/2019, ha ripreso il filo di una lunga serie di pronunce sul rapporto tra ergastolo e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari (permessi premio, lavoro all’esterno, misure alternative alla detenzione). Sintetizzando al massimo in questa ultima sentenza la Corte ha ribadito in vari passaggi il principio per cui le preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari possono avere un senso solo se sono ricollegabili a indici di pericolosità sociale. La Corte testualmente afferma che “sottesa ad ogni previsione di limiti all’ottenimento di benefici penitenziari” è la “esigenza di prevenzione della commissione di nuovi reati“.

Pertanto, un elemento preclusivo in tanto può avere diritto di cittadinanza nell’ordinamento, in quanto sia sintomatico del rischio di commissione di nuovi reati. Di qui la censura della presunzione assoluta di pericolosità sociale del detenuto che non collabori con la giustizia, presunzione che per la Corte costituzionale deve essere considerata relativa e che può essere superata in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. La Consulta arriva a riconoscere quel che nella prassi è ben noto, ovvero che la collaborazione, in taluni casi, possa essere frutto di scelte opportunistiche e tutt’altro che commendevoli.

I riflessi dei nuovi approdi sulla prova del sicuro ravvedimento

La liberazione condizionale è la misura alternativa alla detenzione più ampia a cui può ambire il condannato all’ergastolo, qualora egli abbia espiato almeno 26 anni di pena e sia provato il suo  “sicuro ravvedimento”. Per tanto tempo la giurisprudenza sostanzialmente riteneva che si potesse parlare di ravvedimento solo in rapporto ai detenuti che ammettessero appieno la propria responsabilità. Negli ultimi tempi le cose sono andate via via mutando, e la Corte di cassazione è giunta ad affermare che per concedere la liberazione condizionale deve raggiungersi la prova di una condotta del condannato tale da consentire la formulazione di un giudizio prognostico, basato sul completamento del percorso trattamentale di rieducazione e recupero, quale certa previsione di corretti futuri comportamenti e del rispetto delle regole di convivenza civile. In altri termini per l’ammissione al beneficio è richiesta la valutazione del grado di consapevolezza e di rieducazione raggiunto dal condannato e della positiva evoluzione della sua personalità successivamente al fatto in funzione del suo sicuro e proficuo reinserimento sociale. Si ribadisce che l’art. 176 c.p. non prevede, invece, che la concessione della liberazione condizionale sia subordinata all’ammissione delle proprie responsabilità da parte del condannato. Anche al condannato infatti, e non soltanto all’imputato, spetta il diritto di non essere costretto a confessare gli addebiti, perché, diversamente, la prospettiva di accesso alla liberazione condizionale potrebbe indurre a strumentali e non spontanee ammissioni di colpevolezza, pur potendo rilevare l’atteggiamento negazionistico, assunto rispetto al reato, quale sintomo di una non compiuta adesione all’opera rieducativa. Al tempo stesso, in situazioni siffatte si è avvertita l’esigenza di non arrestare la disamina al solo dato della mancata confessione, ma di estendere l’esame a tutte le informazioni disponibili, riguardanti la personalità del soggetto, la condotta carceraria, l’evoluzione comportamentale con il miglioramento del livello culturale e l’impegno in attività lavorative, l’esito dell’eventuale accesso a misure alternative alla detenzione, secondo quanto emergente dai dati dell’osservazione inframuraria e dalle considerazioni degli operatori dei servizi sociali.

Quando può dirsi sicuro il ravvedimento del condannato?

In alcune recenti pronunce il Tribunale di sorveglianza di Cagliari ha negato la concessione della liberazione condizionale affermando, con un giro di parole piuttosto contraddittorio, che se da un lato la prova del ravvedimento non passa necessariamente per la confessione del condannato, dall’altro lato esso dovrebbe essere dimostrato con il compimento di gesti che denotano la sua assunzione di responsabilità, quali risarcire il danno, porgere le scuse alle vittime et similia. È di tutta evidenza che nella sostanza ciò equivale a pretendere dal condannato che non vuol confessare altri comportamenti che implicano la tua responsabilità, dei veri e propri surrogati di confessione.

Si continua così ad intendere “sicuro” il ravvedimento solo in caso di confessione esplicita o surrogata, finendo per attribuire alla confessione medesima un valore di presunzione assoluta analogo a quello che la legge attribuiva alla collaborazione per i condannati all’ergastolo ostativo. Tuttavia, come non può essere rimessa solo alla collaborazione la prova del buon esito del trattamento risocializzante per i condannati 4-bis ord. penit., così non può essere rimessa solo alla confessione la prova della meritevolezza della liberazione condizionale. Ciò infatti violerebbe sia il divieto di prove legali, sia il principio per cui alla magistratura di sorveglianza deve essere concessa la massima libertà nella valutazione del percorso risocializzante del detenuto. Ed invero, nel momento in cui la legge pretende che il ravvedimento sia “sicuro”, pare imporre al giudice di raggiungere una prova certa di esso; ma se tale prova certa potesse darla solo la confessione, quest’ultima assurgerebbe a prova legale del ravvedimento.

È evidente che ci si trovi di fronte ad una soluzione ermeneutica che non è più adeguata al sistema di principi e regole generali che informano a livello costituzionale il diritto dell’esecuzione penale. Si è detto che la Corte costituzionale esige che il fondamento di ogni limite all’accesso ai benefici penitenziari sia riconducibile al rischio di commissione di reati. Quindi, anche il ravvedimento deve essere re-interpretato in modo tale che esso rappresenti un sintomo di scarsa probabilità di commissione di reati, altrimenti non avrebbe diritto di esistere. È evidente però che, se si deve formulare un giudizio probabilistico, non abbia alcun senso parlare di “sicurezza” del ravvedimento: ciò che è probabile, per definizione, non può essere certo, tanto meno nel momento in cui si formula un giudizio prognostico ex ante, al più può diventare certo ex post. Non si tratta affatto di una lettura contra legem, al contrario: la legge prevede quale causa della revoca della liberazione condizionale la commissione di reati della stessa indole, quindi è la legge stessa a riconoscere che quel giudizio di ravvedimento non possa mai essere poi così “sicuro”, ammettendo smentite postume.

Ed allora, appare necessario riprendere in mano l’esegesi del concetto di “sicuro ravvedimento” alla luce delle citate sentenze della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale, per avvicinarlo a ciò che di più naturale vi è nel procedimento di sorveglianza: il ravvedimento deve potersi ritenere provato (liberamente) sulla base di tutti quei comportamenti che consentono di esprimere un giudizio prognostico sul favorevole reinserimento sociale del condannato e sul fatto che egli si asterrà dal commettere reati (il che, di per sé, è indice di una presa di distanza dal passato asseritamente criminale).

Tirando le fila del discorso, si deve innanzitutto affermare che non dovrebbe parlarsi di sicuro ravvedimento, ma al più di “altamente probabile ravvedimento”. Poiché la sua non integrazione è un ostacolo alla concessione del beneficio, esso deve essere ricondotto alla categoria degli indici sintomatici di probabilità di commissione di nuovi reati e in ordine alla prova del suo raggiungimento il Tribunale deve ritenersi libero da vincoli simili a quelli imposti da una prova legale. Conseguentemente, non può negarsi la sussistenza del ravvedimento se è altamente probabile che il condannato si asterrà dal commettere reati una volta ottenuta la misura.